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"Oh Franzen, Franzen, perché scrivi della mia famiglia Franzen?".

Vi dirò, ho comprato "Zona disagio" ("Discomfort zone" in originale appunto, e facciamo subito caso al meraviglioso titolo e alla bellissima copertina anche) in preda all'adorazione folle nei confronti del buon vecchio Jonathan dopo aver letto "Libertà". Mi ero preoccupata ben poco della trama sinceramente. Sapevo solo che parlava più o meno della sua famiglia. Ordine online e passa la paura.
Il romanzo è stato riposto accanto agli altri Einaudi fino alla scorsa settimana, quando ho deciso che sì, potevo farcela. Il punto è che come ho già detto qui Franzen fa bene, ma anche malissimo. Ormai ho capito che come Murakami mi invita a esplorare il mio lato maniacale e psicotico senza sentirmi in colpa, lasciandomi trasportare dal surreale, così Franzen mi aiuta perfettamente quando perdo definitivamente la pazienza e certa gente comincia a starmi stretta, quando comincio a sbattere le porte un po' troppo violentemente e vorrei tanto emigrare in Antartide e costruire lì il mio impero come Veidt.


Quindi, sono di parte? Terribilmente. Infatti solo in questi giorni ho scoperto che Zona disagio non è piaciuto a un sacco di gente, che lo ha trovato noioso, pretenzioso, inutile.
Ma pur essendo di parte non potrei mai considerarlo noioso o inutile. 
Questa volta la famiglia in questione non sono i Lambert o i Berglund, ma la famiglia Franzen e l'autore in sei perfetti capitoli ci mostra momenti letali ma pur sempre umani riguardo la sua infanzia, la sua adolescenza, fino a giungere al matrimonio.
Tutto è innescato dalla morte della madre. Jonathan deve tornare nella casa in cui è cresciuto, nella suburbana Webster Groves, per riuscire a vendere proprio quella casa, entrando nella "Zona disagio" che è il suo passato, mettendo insieme ricordi con ironia ma pur sempre con sguardo emotivo. 
Franzen osserva il passato in maniera chirurgica. Rispolvera scene che hanno fatto tremare le mura di casa, parla del suo amore per la lingua tedesca, del suo "problema ornitologico" e lo fa prendendo tutto con delicatezza, maneggiandolo con cura, ma sghignazzando un po' o digrignando i denti. 
Letale. Non noioso, non pretenzioso. "Ma alcuni sono brani che lui aveva scritto per delle riviste! È sconclusionato!". Non è un'autobiografia mi pare, non dovete cercare un percorso tracciato alla perfezione. Dovete guardare e basta. 
Quindi è consigliato? Certo che sì. Poi magari partite da "Le correzioni" o "Libertà", ma poi fate come me, impulsivi, recuperate.

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