Paper Moon
Premessa per un addio di Gian Luca Favetto (NN Editore, as usual), ci trasporta immediatamente in un luogo ben preciso, in una posizione di perfetto squilibrio, in alto, sopra l'oceano, su un volo diretto a New York. 


Se c'è un continuo riferimento agli spazi, ai luoghi, alle distanze è perché Tommaso Techel è un geografo. Ed è questo che fa, calcola le distanze, sopratutto quelle umane. 
Ma per quanto il suo lavoro consista in una mappatura precisa lui non è capace di ordinarsi. Tommaso vive l'abbandono e non riesce a gestire la sua rabbia. Una rabbia muta e glaciale, che lo porta viaggiare non per scoprire, per conoscere (è o non è un geografo?).
Tommaso Techel viaggia per nascondersi. Per questo è diretto a New York. Un amica ha un appartamento vuoto ed è lì che è diretto. Ma è proprio sul'aereo diretto a New York che conosce Alma Berlin. Che lo porterà a conoscere Gladys. E infine Cora. 

"Scrive che la rabbia è come i titani, antica e ottusa. E lui è stato travolto dai titani, se li è visti addosso - una tempesta, e dopo la tempesta il ghiaccio, e dopo il ghiaccio il vuoto."Questo romanzo è un viaggio immobile. La rabbia artica e letale di Tommaso è percepibile in ogni pagina. Perché appunto non esplode, non brucia e non fa apparentemente alcun male. È una rabbia dolorosa perché non permette il movimento. Quando sei congelato è difficile trovare qualcosa capace di scioglierti fino in fondo. E il motivo per cui Tommaso è così arrabbiato, lo scoprirete da soli, lui riesce a raccontarlo fino in fondo.

L'antidoto alla rabbia sono e storie. E le persone. 
Ed è questo che c'è a New York, una città che ti permette di essere chiunque. Una città che permette la sopravvivenza perché non ti chiede mai chi sei veramente.
Mentre ricorda alcuni viaggi passati ci si rende conto come quelle di New York siano piccolezze quotidiane, non grand avventure. Eppure è proprio qui che Tommaso riesce a rirdinare sé stesso. Perché bisogna riuscire a fermarsi. 
Tommaso trova un libro Foreword to Farewell (Premessa per un addio, appunto) di e trova delle persone. 

"«E lei si è perso nel libro?» chiede Gladys.
Io sono già perso da prima, gli verrebbe da rispondere. «No» dice «mi sembra di no. Magari però mi sono perso e non me ne accorgo».

Premessa per un addio non è solamente un percorso preciso, c'è Tommaso, c'è quello che succede con Cora, c'è l'appartamento. Ma è un romanzo che riesce a mostrare (e a raccontare, ovvio) quanto le storie siano potenti, come la letteratura sia capace di mettere in movimento le persone, come ci unisca, facendoci perdere per poi ritrovarci.  

Ultimamente sto buttando roba nella wishlist senza farmi alcun problema. Si va dai libri d'arte, nuove uscite, saggistica, e fumetti di cui sento un tremendo bisogno. 
Ho cercato comunque di mettere insieme alcuni titoli che penso proprio che a breve cadranno malauguratamente nelle mie mani. 




 

  • Al di là del nero, Hilary Mantel (Fazi). Non so se si è capito quanto io brami questo romanzo. In realtà andrebbe benissimo qualsiasi altra cosa della Mantel, tipo il primo romanzo della trilogia sulla rivoluzione francese. Però questo, con questa copertina, con la protagonista medium mezza cialtrona e lo spirito fastidioso tipo poltergeist mi attira veramente tanto. 
  • Il bazar dei brutti sogni, Stephen King (Sperling & Kupfer). Un applauso all'altro nostro grandissimo amico Stephen che pubblica una nuova raccolta di racconti che in Italia esce il 22 marzo, giusto tre giorni prima del mio compleanno (ottimo tempismo carissimo). Alcuni racconti sono inediti, altri già visti come al solito ma oh, chi se ne frega.

                             

                      
  • Anche noi l'America, Cristina Henrìquez (NN Editore). Ringraziando il cielo ho fatto la Smart Card offerta dalla NN Editore visto che continuano a pubblicare un libro più bello dell'altro. Questo esce il 17 marzo e sono pronta a leggerlo appena arriverà a casa sano e salvo. Maribel si traferisce con i suoi genitori dal Messico a New York in vista del fantomatico grande sogno americano, in mezzo alla sua voce molte altre si uniranno al racconto.
  • A pietre rovesciate, Mauro Tetti (Tunué). Premettendo che io devo ancora recuperare Dalle Rovine (e sono ormai certa che potrei adorarlo alla follia), aggiungo alla wishlist anche quest'ultima uscita della collana romanzi. Ammetto che della trama ho capito ben poco, tranne che è romantico e onirico. Ovviamente il secondo aggettivo mi ha ingabbiato e sono stata decisamente costretta a metterlo in lista.

             
  • La Valle dell'Eden, John Steinbeck (Bompiani). Ho letto Furore e ho perso la testa. Dopo un breve consulto con La Cornacchia Sepolta mi sono decisa che il prossimo Steinbeck sarà proprio questo.
  • Come funzionano i romanzi, James Wood (Mondadori). Ho visto questo romanzo in una foto pubblicata da Scratchbook sulla sua pagina Facebook. L'ho subito appuntato.
Fine di questa faticosa wishlist. Mettere insieme questi titoli e non aggiungerne molti altri è stato terribile. Io spero che il mio compleanno serva a smaltire quacosa.
Fatemi compagnia e ditemi che anche le vostre stanno assumendo forme che ricordano un Grande Antico, vi prego.
Il primo volume di Poison Fairies di Luca Tarenzi, pubblicato da Acheron Books e intitolato La guerra della discarica, ci trasporta nel mondo che noi poveri esseri umani non riusciamo a vedere. Qualcosa di nascosto, così minuscolo, ma così terribilmente potente. Il popolo delle fate, chiaro. 
I protagonisti di questo romanzo sono infatti due tribù appartenenti al popolo fatato, in guerra tra loro. O meglio, una tregua è in corso, ma per usare le parole di Cruna si tratta più di un ricatto. Cruna è una giovanissima fata, anzi una principessa delle fate, essendo suo fratello il re. Ma attenzione, di principesco Cruna ha ben poco. È avventata, risoluta, non aspetta certo qualche minuto a farvi fuori se vede che le cose non vanno come vuole lei. 
Ed è così che facciamo la sua conoscenza in effetti. Mentre infrange gli ordini del re insieme a un gruppetto ben assortito di fate parecchio particolari. Disgelo, una fata con una parentela particolare, Verderame (la mia preferita) una Slaugh, ovvero una veggente, e Stilo. Stanno cercando di recuperare una batteria abbandonata nella discarica prima che cada nelle mani della tribù rivale.


Esatto la discarica. E permettetemi di dire che è qui Tarenzi vince su tutta la linea. 
Insomma, del Piccolo Popolo ne abbiamo ormai sentite a bizzeffe e la figura delle fate è ormai stata ribaltata, rimodellata in qualsiasi maniera possibile. Ma le fate sono prima di tutto una creatura del folklore che non rientra certo nella categoria "che fortuna, vedrai che le cose andranno bene ora!". Ci si protegge dal fascino delle fate, si evitano i sentieri dove è possibile incontrarne qualcuna. Causano illusioni, traggono in inganno. Sono piccoli esserini potenti, non farfalline con cui ridacchiare. 
E le fate di Tarenzi sono infatti colme di potere. Un potere parecchio intrigante chiamato glamour. Ogni glamour è diverso, alcuni sono più potenti altri meno, alcuni capaci di creare illusioni altri capaci di poter vedere oltre ogni cosa. E queste fate, che vivono in mezzo a guerre e colpi di stato vivono in una discarica. In mezzo all'immondizia umana. 
Per farla breve ragazzi, abbiamo un urban fantasy completamente diverso dal solito. Qui le fate sono in questo contesto così poco adatto a loro, così violento e crudo, ma perfettamente adeguato a quello che ci viene raccontato. Le fate, che restano comunque espressioni della madre terra, spiriti delle acque, della vegetazione, qui si nascondono dentro un porta cd, dentro un microonde. 

E non è tutto. Le dinamiche sono letali, non potrete fare a meno di leggere per sapere se questa banda di teste calde riesce a scamparla, per non parlare di quando spuntano fuori le sirene. Esatto, le sirene, perché la mitologia di Poison Fairies non si ferma certo alle fate, ma inserisce molti altri elementi, molto altro folklore che è impossibile fermarsi, prendere fiato. 

Quindi, un bel romanzo, un urban fantasy parecchio differente dal solito, delle fate che non hanno intenzione di darsi una calmata. Io fossi in voi lo recupererei. 
Quale libro leggere (e narrare per filo e per segno al proprio ragazzo) per San Valentino se non Rosemary's Baby di Ira Levin? La nuova edizione BigSur mi ha chiamato durante uno di quei famosi giretti in libreria nei momenti in cui penso di meritarmi un libro nuovo.
E insomma, questo romanzo mi è piaciuto parecchio.




Dunque, la storia di Rosemary credo che la conosciamo più o meno tutti no? Il film di Polanski è più noto del romanzo presumo. Questa dark comedy è in realtà molto di più che una storia grottesca e piuttosto raccapricciante. Ira Levin riesce a creare un senso di oppressione assoluto, instaurando un meccanismo che non fa altro che generare sempre più suspense. 
Sin dal primo momento in cui conosciamo Rosemary e Guy capiamo che tutto andrà, giustamente, storto. Parecchio male. Del resto la casa nuova è un buon punto d'inizio per qualsiasi horror. Ma insieme a quest'ansia palese c'è altro. Mentre parlano giusto del nuovo appartamento in cui trasferirsi Guy, un attore in cerca di fama, si guarda allo specchio e si trova un foruncolo. Intanto Rosemary è lì e freme per andare a visitare questo magnifico appartamento nel Bramford, forse un po' più piccolo di quelli che hanno già visitato, ma di sicuro se ne può ricavare una stanza per il bambino. Un bambino che deve ancora arrivare ma che lei vuole moltissimo, insieme a una bella casa, con della bella carta da parati e un camino vero. Intanto Guy pensa al foruncolo e alle audizioni. Insomma, il meccanismo è ovvio, si muove lì davanti a noi, mentre intatto viene buttata in mezzo altra suspense. 
Gli aspetti disturbanti si uniscono. Rosemary che non capisce, non capisce davvero, che pensa alle poltrone e Guy che vuole la parte, mentre intanto tutto ciò che può essere strano e sbagliato lo diventa in una maniera ancora più surreale e malsana. 

Il finale di Rosemary's Baby è sbagliato? Per qualche momento l'ho pensato. E poi, dopo averci rimuginato parecchio ed essermene lamentata ad alta voce ho capito che no, in realtà è perfetto. Una storia simile come altro poteva finire? In parte c'è una lezione, quasi una morale, grottesca ovviamente, e se la troverete come ho fatto io vi renderete conto che Ira Levin ve l'ha fatta.
Mi è capitato In un paese bruciato dal sole di Bill Bryson (Guanda) sotto gli occhi mentre cercavo qualcosa di buono da leggere su MLOL (grazie a tutti gli dei per questa magnifica invenzione). Alla fine la spedizione è andata a buon fine visto che in poco meno di due settimane mi sono divorata sia questo romanzo che La materia oscura.
In ogni caso, ecco perché dovreste leggerlo.




  • È un diario di viaggio. In Australia. Mi immagino le vostre facce. Siete in quella via di mezzo tra "sinceramente non mi interessa un granché" e "cosa potrà mai raccontare?". Bene, la verità è che racconta un sacco di cose, e sapete perché? Perché dell'Australia non ne sappiamo proprio nulla. Non sappiamo bene com'è fatta, cosa c'è, cosa fanno, cosa è successo nei secoli. Dell'Australia non se ne parla mai. 
  • Attraverserete deserti sconfinati e forse capirete cosa si intente per bush. 
  • Bryson è capace di convincervi a fare le valigie adesso. Siete pronti a dire "bene, mettiamo da parte i soldi e al diavolo la Louisiana/Messico/Giappone, un bel viaggio in Australia è quello che ci vuole". E poi boom! Vi elenca altri dodici animali brutalmente letali che solo leggerne gli effetti vi fa venire la pelle d'oca. A me sinceramente basta il ragno dei cunicoli. Un grosso e raccapricciante nope.
  • No, agli australiani frega ben poco il fatto che anche raccogliendo una semplice conchiglia possono venire avvelenati. Ma c'è un animale che anche gli australiani temono. Il coccodrillo. Ergo, aneddoti sui coccodrilli ovunque.
  • Aneddoti ovunque in generale. Divertenti, terrificanti, qualsiasi tipo di storiella vogliate eccola lì.
  • Di nuovo, non si parla mai dell'Australia. Sapete qualcosa della sua storia? Non credo proprio. E dell'incendio che ha bruciato una zona grande quanto l'Italia? Anche meno suppongo (tutta colpa degli eucalipti, sappiatelo).
  • Gli aborigeni. Un popolo che meriterebbe molto, molto di più.
  • L'Australia è primitiva, arcaica, poi svoltate l'angolo (o meglio vi fate duemila chilometri) ed è di nuovo cortese, ospitale e fresca.
  • Buttate pure giù una lista delle cose da visitare quando sarete lì. 
  • Bill Bryson è bravissimo. Bravissimo e basta.
Mi raccomando. Godetevi il libro e prendete appunti per una visita futura. Ricordate di non raccogliere conchiglie però.
Ogni tanto bisogna pur allentare un po' la presa. E io mi sono presa una giornata (un giovedì, cosa che è abbastanza esplicativa di suo) per rilassarmi e divertirmi un pochino. Alla fine Italian Way of Cooking, Marco Cardone edito da Acheron Books (che vi invito a spulciare, fantasy e sci-fi tutto italiano) me lo sono divorata in un giorno. Dalla mattina di un terribile giovedì alla sera dopo cena. Qui di seguito le buone ragioni per prendervi una pausa anche voi. Lo so, sono finite le vacanze, quale pausa? Ma la pausa dalle vacanze chiaro, non mi dite che volete altra gente intorno spero.



  • È divertente, chiaro. Un romanzo che parla di come un cuoco il cui ristorante va piuttosto male si ritrovi a cucinare creature soprannaturali può essere due cose: pretenzioso o divertente. Matteo per fortuna sceglie la via giusta (non fate caso alle parole che uso, sono ancora abbastanza traviata da SW). Dopo solo qualche riga verrete travolti dal sano e ottimo vernacolo toscano (sono di parte, lo so). Sarete sommersi voi e le vostre mamme. Non ci si può fare niente, ogni uscita di Nero, ogni suo pensiero sgangherato vi farà sogghignare. Ma non è tutto. La dinamica degli eventi è costruita in maniera essenziale, ma non ovvia. Di conseguenza le azioni sono degne di una serie tv divertente e capace di creare dipendenza. Sappiamo cosa sta per succedere e non vediamo l'ora che ci venga mostrato.
  • I mostri che Nero cucina sono italiani. Prodotti D.O.P. In pratica assisterete alla ricerca di creature appartenenti a un folklore del tutto nostrano più o meno letali. Questa scelta è molto probabilmente la carta vincente. Un romanzo che parla di mostri cucinati da un protagonista spiantato e divertente è buono, ma se i mostri sono insoliti, poco noti e legati a un territorio ben preciso, il romanzo diventa un magnete, la curiosità è giustificata. 
  • Continuo a ripetervi quanto sia divertente, la verità è che c'è anche una buona dose di azione. Nero possiede anche un'arma degna del suo nome, mozzateste. Chiaro, stiamo andando a caccia di mostri. L'unica pecca è questa forse, io di azione ne avrei voluta anche di più. 
  • È scritto bene. Me ne sono accorta dopo le prime venti pagine divorate. Intrattenimento allo stato puro in una confezione perfetta.
Leggetelo, prendetevi una pausa. E poi le cose sono serie ragazzi, con il ricettario imparerete a cucinare il Kappa. Viene buono, davvero. 
La strana biblioteca, ovvero, quando Murakami ricorda Gaiman.
Sarà per il fatto che c'è di mezzo un bambino di fronte a un'incognita terrificante, sarà che c'è di mezze una ritualità onirica che anche per gli standard di Murakami è qualcosa di più, è qualcosa di ben più fiabesco, queste pagine mi hanno offerto una lettura piacevole e molto diversa persino dai soliti racconti di entrambi questi scrittori. Una sintesi di entrambi.


Questa almeno è l'impressione che ho avuto io, ma in ogni caso è un libriccino da recuperare. Il potere di questo racconto è quello di schiudere l'immaginazione. 
Un bambino cade in una trappola insensata, immotivata. Viene rinchiuso nelle segrete di una biblioteca. Deve imparare a memoria tre libri sulla riscossione delle tasse nell'impero ottomano (richiesti da lui, tra le altre cose) e solo se supererà un esame tenuto da un vecchio inquietante verrà liberato. O almeno così spera. 
E ovviamente chi incontriamo nei cunicoli sotterranei della biblioteca? Ovviamente il simbolo dell'assurdo e dell'onirico in Murakami. No, non sono le due lune di 1Q84, ma se conoscete bene i sui romanzi potete arrivarci facilmente. 


Del resto in questo romanzo ci sono dei punti fissi. Reali da far paura. Il libro sulla riscossion delle tasse nell'impero ottomano per dire. O i donuts gustosissimi che vengono serviti al prigioniero. Donuts. In una segreta. O il fatto che la stanza incriminata sia la 107. 
Se in un sogno guardi l'orologio non riuscirai a ricordare l'ora.
E poi ci sono elementi troppo assurdi, quasi fatati. La nostra vecchia conoscenza, la ragazza misteriosa e luccicante che porta la cena, il continuo riferimento allo storno che il protagonista possiede. 
Una confusione che si fa sempre più pressante. 
E le illustrazioni di LRNZ (come sempre fenomenale) sono la goccia che fa traboccare il vaso.


Scorci, visioni da sogno con la coda dell'occhio, che trasmettono un sacco di cose, ma alla fine non sei ancora capace di capire. 
Ci ho messo un po' per finirlo. Anzi, diciamo la verità, non volevo finirlo e di conseguenza mi sono trascinata questa lettura più a lungo possibile.


Accettazione, diciamo subito per non scoraggiare nessuno, è la degna conclusione della trilogia dell'AreaX (Southern Reach Trilogy in inglese, e a ben vedere).
I punti di forza di questo romanzo sono diversi. In primis quelli che abbiamo già apprezzato con sommo terrore nei capitoli precedenti.

L'orrore continuo dell'Area X. Un ambiente che non è altro che un essere vivente, una mutazione continua, un groviglio di esseri stranianti, di sensazioni in grado di compromettere l'essere umano senza possibilità di ritorno. 
“Quando hai deciso di entrare nell’Area X hai rinunciato al diritto di dire che una cosa è impossibile”.
Del resto Accettazione è la sintesi dei primi due romanzi. Il primo ambientato solamente nei confini dell'Area, una mappa piena di anomalie topografiche e sentieri che portano a solo nuove domani, il secondo ambientato invece tra le mura della Southern Reach. 
Ormai è tutto corrotto. L'Area X del resto è la protagonista, e in questo romanzo ancora di più.

Ed è qui che diventa palese la potenza di questo romanzo agghiacciante. 
L'Area X è ormai diventata il territorio delle scelte. Non ci sono meccanismi precisi, o meglio, forse ci sono ma non sono comprensibili. Ci sono solo confini in espansione, una macchia che si allarga annullando ogni conoscenza umana, ogni dato, ogni prova. L'Area X è più cosciente ora, più attiva, più aliena (e alienante), perché sa quello che fa ormai. Sa ciò che deve fare. 

Ma quello che lo Scriba forgia è vero. Perché "tutto giungerà alla rivelazione".
E ancora una volta Accettazione ci prende a schiaffi. Perché se l'Area X è ancora più incisiva e anche grazie al fatto che abbiamo diversi punti di vista stavolta. Tutti i nodi vengono, parzialmente ovvio, al pettine. 
Ma Controllo, Uccello Fantasma, tutti questi esseri umani sono appunto degni di tale nome. Non sono solo coinvolti. Il punto è che una volta varcato il confine (esperienza che viene lasciata scarna di una qualsiasi spiegazione, rendendo l'attraversamento affascinante ma terribile)  si entra  "in un purgatorio dove trovavi tutte le cose perse e dimenticate”.
Per questo i personaggi, la loro psiche, pur essendo ancora più devastati, sono ancora più ricchi, brillano. 

La narrazione è tutta giocata sui binomi. Presente - passato (i flashback sono letali per il vostro cuore, non solo per la testa stavolta) ed è chiaro che un altro binomio sia responsabilità - conseguenze (da lì le poche risposte che avremo o ci sembrerà di ottenere).
Reale - irreale, umano -Area X. 
Ma il cerchio si chiude perfettamente. Perché le parole che risuonano nella mente di chiunque sono contaminazione, infestazione, ibridazione. 
L'uomo, la sua scelta, sono il completamento perfetto dell'Area X.


"Perché, dopo averla rinviata in così tanti modi, credo che la mia trasformazione sarà più radicale del previsto, che potrei diventare davvero qualcosa di simile alla creatura lamentosa. A quel punto vedrò la luna vera?"
Partiamo subito col chiarire una cosa. Io ancora non ho visto il film (sono troppo saccente per vedere prima il film, mi pare ovvio), ma quello che ho sentito dire in giro riguardo a The Martian è: troppa matematica, troppa ingegneria, sono ignorante, non comprendo. 
Ragazzi, io sono così poco propensa alla matematica che mi imbarazzo anche davanti a un'espressione con le graffe aiutando mia cugina di tredici anni.
Eppure questo libro l'ho adorato. Se davvero la matematica fosse un problema non l'avrei divorato in due giorni. Due giorni su Marte. Ok, magari certe cose sono un po', ehm, ostiche? Ma il punto è che Mark Watney vi spiega quel che fa. D'altronde non ha altro da fare.


Il suo equipaggio lo ha involontariamente abbandonato sul pianeta rosso credendolo morto. Ma Mark non lo è affatto. E sì, si trova in una posizione poco confortevole, per dirlo con parole sue "I'm pretty much fucked". Ma di morire non ha per niente voglia. 
The Martian è geniale perché è lontano dallo stereotipo del drama ambientato nello spazio, fatto di frasi fatte (ehm, Interstellar? Nooo, chi l'ha detto?), lacrimoni e ansie su ansie su ansie. 
Mark è tremendo, in senso buono. È ingegnoso (coltiva patate, crea acqua e ossigeno, per dire), ma è sopratutto divertente. Perché quell'ansia da sci fi bellissima c'è (insomma, questo o muore di fame o di qualcosa ci sta che schianti sicuro visto che gioca al piccolo chimico di continuo), ma lui è ironico, impertinente. 
"I chipped his sacred religious item into long splinters using a pair of pliers and a screwdriver. I figure if there’s a God, He won’t mind, considering the situation I’m in. If ruining the only religious icon I have leaves me vulnerable to Martian vampires, I’ll have to risk it."
E sta qui il punto a favore di un realismo agghiacciante. Lui ha paura. Spesso. Ma è umano. E quello che riesce a fare (coltiva le patate ragazzi, le patate! Questo libro lo dovete leggere quando l'autostima l'avete sotterrata in un forziere in giardino) è reso ancora più verosimile grazie a questo.

E poi boom, spunta la Nasa. Perché effettivamente un romanzo intero solo sui suoi aggiornamenti avrebbe poco senso no (ed è effettivamente ho scoperto che molte persone non lo leggono anche per questo "Nel libro sarebbe più noioso). Col cavolo. Avete mai sentito parlare di ironia tragica? Ecco che cosa succede quanto spunta la Nasa. 
Volete comunque un po' di drama? Nessun problema, non vi sarete mica dimenticati dell'equipaggio che lo ha abbandonato su Marte. Il loro POV dove lo volete mettere?

Leggete questo romanzo! Dio santissimo, leggetelo! 

"My asshole is doing as much to keep me alive as my brain."
Non è recensibile, almeno non da me. Io sono qua a parlare di quello che sento, che assaporo mentre leggo (e sopratutto divoro, visto il mio carattere violento) certi libri. 
E qui mi trovo davvero davanti a qualcosa di difficile persino da raccontare così, rilassata grazie all'aria fresca di settembre, senza sentirmi in ansia perché a me piace solo far sapere qualcosa. 
Insomma, Finzioni. Potrei elencare parole a caso come Silente, sostituendo a Pigna Pizzicotto Manicotto Tigre parole come estasi, irrealtà, anatomie, perdenti. Ma non avrebbe senso comunque.
Il fatto è che credo di dover recuperare tutto Borges comunque perché quello che ha da darmi è davvero importante credo.



I temi di questi racconti (se così si possono definire) sono numerosi, ma hanno comunque il comune denominatore dell'irrealtà. La finzione e l'artificio (guarda caso) sono appunto alla base di quello che passerà sotto i nostri occhi meravigliati.
"Procedimento migliore è quello di fingere che quei libri esistano già [...] Più ragionevole, più inetto, più pigro, ho preferito scrivere note su libri immaginari"
L'irrealtà parziale dell'esistenza, del racconto stesso emerge da Don Chisciotte, mentre una creazione del tutto completa (ma non del tutto perché scardinata da una realtà totalmente vera e tangibile) è quella di Le rovine circolari. L'inganno si nasconde dietro volti sfigurati, dietro sette forse un po' ridicole.

Il mondo, l'esistenza, è posto su piani infiniti, tutti possibili, molti assurdi. 
"In tutte le finzioni, ogni volta che un uomo si trova di fronte a diverse alternative, opta per una di esse ed elimina le altre; in quelle del quasi inestricabile Ts’ui Pen, opta - simultaneamente - per tutte. Crea, così, diversi futuri che a loro volta proliferano e si biforcano. Fang, diciamo, ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, ci sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l'intruso, l'intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono morire, eccetera. Nell'opera di Ts'ui Pen, si verificano tutti gli scioglimenti: ciascuno di essi è il punto di partenza di altre biforcazioni. A volta, i sentieri di quel labirinto convergono; ad esempio lei arriva in questa casa ma in uno dei passati possibili lei è mio nemico, in un altro mio amico."
Tuttavia lo schema non è mai drastico, ma solamente ininterrotto, da assaporare ogni volta, ogni finzione ha un "sapore" diverso.
Il dramma quasi ironico di questo creazione di creazioni è spesso palese, come ne La lotteria di Babilonia. La realtà è solo un gioco d'azzardo. Chi la regola è sfuggente, quasi evanescente ormai. 

Borges ci offre il preludio a una realtà da affrontare che spesso è tenace, spesso ancora più infima. Queste creazioni, i libri nei libri, i sogni rinchiusi in menti umane che aprono nuove porte su diversi mondi, sono armi contro una lotta eterna contro il tempo e lo spazio.
Io qualche conoscenza passivo aggressivo l'ho avuta, e posso dire che sì, sono terribili. 
Proiettori di ansia e sconforto, ma sopratutto, di un malessere indicibile e intollerabile, perché non nostro. 
Nel Soccombente abbiamo tre elementi, tre pianisti, tre virtuosi. Uno è l'io narrante (praticamente Bernhard stesso), uno è il soccombente (Wertheimer), uno è Glenn Gould. Ed è questo che annienta gli altri.
Tre pianisti talentuosi certo, ma solo uno è veramente. Ovvero Gould. Sono coinquilini, in parte colleghi, tutti e tre frequentano lo stesso illustre maestro di piano. Ma mentre il narratore e Wertheimer sono pianisti "e basta" Gould riesce a diventare in tutto e per tutto ciò che voleva essere. Il pianoforte stesso. "L'ideale sarebbe che io fossi lo Steinway, che non avessi bisogno di Glenn Gould, diceva, se fossi lo Steinway potrei fare in modo di rendere Glenn Gould del tutto superfluo".
E così è. L'annientamento dell'arte è palese. Gould sembra malato, rattrappito di fronte al pianoforte. Ma in realtà è una persona normale. Non fa arte, ma diventa arte. Perché non si è mai posto quesiti, perché non ha avuto paura, perché era qualcosa all'ennesima potenza. 
Ma lo ammetto, per quanto Glenn Gould sia maestoso è il Soccombente che sgomita affannoso tra le pagine per catturare il lettore. Wertheimer è invidioso, disperato, perennemente scontento. È il passivo aggressivo.
Perché Gould non gli fa niente di male. Ma nell'ottica di Wertheimer lo ha ferito a morte. Lo ha pugnalato. Per quanto si atteggiasse come un vero stoico Wertheimer ha compiuto un suicidio nel nome di nient'altro che dei suoi demoni. Della sua passività sempre pronta ad attaccare l'altro. 

E il narratore affronta un'accurata e chirurgica analisi di questi due elementi con un'angoscia esasperante, un monologo, una confessione che leva il fiato. Un'analisi in negativo. Non c'è mai un complimento, e in parte non c'è nemmeno ammirazione. 
L'unico tratto positivo sembrano quelle Variazioni Goldberg che hanno fatto crollare Wertheimer. Un virtuosismo doloroso.
Ok, ammetto che sono ossessionata da tante cose. Un numero nella media comunque. Ma sono più che sicura che Lovecraft sia quell'ossessione che sta sul podio insieme a poche altre. L'outsider, l'ossessionato a sua volta, quel metterci di fronte a un essere umano incapace di conoscere la realtà, incapace di comprendere cosa si celi davvero dietro il cielo stellato che si ritrova a fissare pieno di meraviglia. Quella meraviglia che diventa orrore, una terribile comprensione che non può, e non potrà mai, perché mai lo è stata nei tempi, essere tollerata.
Il buon Howard ci mette davanti agli strappi nel tessuto cosmico che diventano vere e proprie ferite nell'animo umano, l'invisibile si palesa (ma mai completamente, mai con fare troppo scenico, mai del tutto, nessun Necronomicon mai esplicitato) e le stelle brillano come potrebbero brillare altrimenti solo a Carcosa. 



Erik Kriek prende Lovecraft e smussa gli angoli. La narrazione è più composta, quasi ammaestrata. Si viene presi per mano quasi con gentilezza. Non che per questo ci si senta meno inquieti. Sappiamo a cosa andiamo incontro. Sappiamo bene chi sono gli abitanti di Innsmouth, ma grazie a questo tipo di lentezza, affrontiamo l'orrore con una calma placida ancora più straniante. Kriek ha reso Lovecraft meno frustrato, meno orrorifico in parte. Incredibilmente la cosa mi è piaciuta da morire.
La sceneggiatura procede omogenea, un racconto come Dagon (uno dei miei racconti preferiti tra tutti quelli di Lovecraft) è un viaggio nell'orrore Lovecraftiano puro, con piedi che affondano nella melma viscida, geroglifici che non dovrebbero essere mai letti, e sebbene sia un racconto che ormai conosciamo a memoria neanche stavolta mi sono sentita meno sopraffatta. Merito del vecchio Howard, ovvio, ma anche di Kriek, che svela con un terrore quieto la creatura mostruosa che si cela dietro il reale. 



Il fatto che Kriek si sia ispirato ai fumetti della EC Comics degli anni '50 ha reso tutto ancora più credibile, più concreto. La copertina è la summa completa di ciò che affrontiamo leggendo questi racconti. Un tuffo nel cosmo, un orrore pieno di meraviglie. Per non parlare dei dettagli, dei motivi ittiformi, delle pieghe ripugnanti, delle creature che volano terribili sopra le nostre teste, nei parchi, mentre noi continuiamo a ignorare tutto.
Ci si avvicina a Mal di pietre perfettamente coscienti di trovare una qualche storia d'amore ma non si è per niente pronti alla portata e al magnetismo che questo libriccino può donare in pochissime ore di lettura. La storia semplice di una donna che se ne va alle terme per curare i calcoli renali (le pietre) e lì incontra un uomo a cui da in pasto il suo cuore con tutto quell'amore che non riesce mai a provare davvero.

Parla d'amore così come parla di giornate mai troppo differenti, costellazioni famigliari presentate senza troppo clamore, di realtà dove tutti si conoscono, dove l'affetto è spesso intangibile, di un futuro dove si raccontano aneddoti. 
Quando si è diversi, quando si è troppo. Troppo silenziosi, troppo passionali, troppo e basta. E si diventa pazzi agli occhi degli altri. Quel che ci vuole, quel che serve per guarire davvero, è una licenza per vivere i propri desideri, una licenza che chiaramente non esiste, ma che si ottiene comunque riuscendo a fregarsene un po'.

Il Reduce sarà la cura al mal di pietre, alla vergogna che non si è mai voluta provare, a quel blocco che rendeva una donna esasperata, priva di amore. E dicendo tutto quello che si vuol dire, comprese le bugie, le sciocchezze, le paure di una vita si torna a casa un po' ammaccati, ma miracolati. 

"Le disse anche, sempre all'orecchio, che alcuni studiosi sostengono che Paolo e Francesca siano morti ammazzati appena scoperti, mentre altri dantisti pensano che abbiano preso piacere l'uno dall'altra per un po' di tempo, prima di morire. E più non vi leggemmo avanti si deve interpretare. Disse anche che se nonna non aveva tanta paura dell'Inferno anche loro due avrebbero potuto amarsi in quello stesso modo. E nonna dell?inferno non aveva nessuna paura, figuriamoci."

Vi dico che ci sono: segni sulla che mostrano chi siamo davvero, musicisti, sesso buonissimo, storie consegnate senza timore, frammenti di un amore che sembra quasi troppo, troppo, ma alla fine è di quello che ti riempie la bocca. 

Un mese durante il quale sono stata fagocitata dalle ansie. Non è una novità, no, ma sharing is caring e va bene così. 
A parte l'orripilantemente imbarazzante "Forbidden" (ragazzi, ma neanche col buon vecchio trucco dell'incesto ce la facciamo? Direi di no), le mie letture sono state molto buone. 
Ho saltellato un po' qua e là, a caso, ispirata da niente che non fosse la noia o il bisogno di starmene attenta e vigile con il naso appiccicato alle pagine.

  • Last days of California, Mary Miller. Prendete due cose che vengono raccontate un sacco di volte (gli americani ne vanno ghiotti): road trip e adolescenti che pensano troppo. Prendete questi due elementi e tirateli, maltrattateli, spogliateli e metteteci un po' di sana cattiveria. Ecco fatto. Bellissimo.
  • Al mare, Eric de Kuyper. Un libro che sa di intonaco, sabbia tra i capelli (banalmente e giustamente), tovaglie pulite. Partendo da una memoria misera si ritrova l'infanzia, la consapevolezza vera di cosa fosse, una calma placida per niente ossessiva.
Ho finito "La morte del padre" tra le altre cose. Ok, bello, però neanche quello che mi aspettavo. Mi è sembrato che di sotterraneo, crudele, sincero, ci fosse ben poco. Si rimane tantissimo sulla superficie delle cose, e sinceramente mi aspettavo qualcosa di più, considerando anche il fatto che lo stile mi ha fatto cadere ai suoi piedi tempo due secondi. Però no, pensavo proprio meglio. 
Perché ho visto prima il film invece che leggermi prima "Il labirinto" di Dashner? Molto probabilmente perché sono cretina. In ogni caso mi sono resa conto anche solo vedendo la trasposizione che sì, questa volta c'eravamo. La trama, i personaggi, mi sono piaciuti parecchio. E quindi ho recuperato il romanzo di Dashner. Ebbene, mi è piaciuto anche quello. Purtroppo però sono una scema e avendo letto prima il libro molte cose non erano così "esaltanti", l'adrenalina un po' si è persa. Però dai, ammettiamolo pure, stranamente una saga YA che mi piace abbastanza e che continuerò certamente. 


La trama sicuramente la sapete. Questi ragazzi sono rinchiusi in una radura al centro di un labirinto. Usciranno? Chi ce li ha messi? Perché quando arriva Thomas (il protagonista, ovvio) le cose si mettono male? 
Trama ovvia? Secondo me no. È solo, ringraziando il cielo, semplice. Ed estremamente efficace. Basta un labirinto, e l'idea di uscirne, a innescare un intreccio che si fa sempre più subdolo (e sicuramente nei due volumi seguenti lo diventerà ancora di più). Noi sappiamo poco, ma è proprio quel poco che ci spingerà ad avventurarci insieme a Thomas in quel dedalo misterioso. Basta una parola in realtà: intrigante.
Altro punto a favore di questo romanzo sono i personaggi. Sono sinceri. Basta con questi ragazzini che parlano come se fossero in un'opera di Shakespeare, che non hanno mai paura, che pensano e rimuginano sempre e comunque. In una società come quella che si è instaurata nella Radura si sopravvive e basta, per questo Dashner ha messo in scena ragazzini reali. L'unico che può un po' far storcere il naso è proprio Thomas (quasi sempre troppo coraggioso per i miei gusti, ma dobbiamo scoprire molto del suo passato). 
Inoltre devo ammettere che sono anche abbastanza ben caratterizzati. Forse alcuni più di altri, che vengono relegati in ruolo un po' macchiettistico. Ma l'interazione di questi ragazzi con quello che li circonda, cosa essenziale visto che è un distopico, è la cosa migliore di tutto il romanzo. La società che hanno creato, il linguaggio che usano, ha senso. Squillino le trombe, ha senso. 

Abbiamo quindi un romanzo adrenalinico, accattivante, di cui sento disperatamente bisogno di conoscere il seguito. Forse verrò delusa, ma non credo. 

Se Annientamento era un delirio impreciso ma letale con lo scopo di tagliare i vostri ponti con ciò che conoscete Autorità riesce a mettervi di fronte tutto ciò che pensate di conoscere, mostrandovi con una chirurgia malsana che in realtà non ne sapete proprio niente.
Il secondo capitolo della Southern Reach trilogy è una performance grottesca, quasi un capolavoro uscito de La Fura dels Bauls, una danza inquietante intorno a un fuoco terribile, senza proiettare alcuna ombra. E la performance è quella della presa di coscienza dei rischi e delle volontà perdute nell'Area X. 
Due sono i protagonisti di una tragedia annunciata: Controllo e la Southern Reach (di cui è il è il nuovo Direttore). John Rodriguez se viene chiamato così lo capite da soli, un motivo c'è, ma in realtà (d'altronde, banale a dirsi, ma niente è come sembra) di Controllo ne ha ben poco. L'agenzia governativa che si trova a dirigere è impenetrabile e piena di segreti tanto quanto l'Area X. Poche cose, e quelle poche o apparentemente insignificanti o terribili oltre la soglia della sopportazione, Controllo (con le sue paranoie, la sua ricerca impossibile della tranquillità, la sua ingenuità) si troverà ad affrontare un mostro con due teste, entrambi troppo micidiali. 


"Però questa cosa indefinita che sembra volerti distruggere non ha un capo con cui negoziare, nessun obbiettivo dichiarato". 
Controllo inciampa e cade continuamente, viene manipolato e si lascia manipolare. L'ignoto ha il coltello dalla parte del manico, ed è chiaro fin dall'inizio che la ferita sarà letale.
Ed esorcizzare l'ignoto è impossibile. Ciò che si ottiene è solo una brutta sensazione, la voglia irrefrenabile di lavarsi le mani, fuggire via, pensare al passato. Ma è molto più che una semplice compulsione.
L'Area X, come del resto la Southern Reach, è un organismo vivente, subdolo, e sopratutto devastante per il corpo e per la psiche. Il mondo vive in una bolla, la realtà è troppo crudele, i segreti troppo pesanti. L'aria manca fuori così come oltre il Confine. 
Le teorie si accumulano e i fascicoli sembrano inutili quando si affronta il fascino intraprendente di qualcosa che ti attira sempre più a sé, qualcosa che ti confonde, tutto ti distrae dall'obbiettivo.
"Be', dipende dai soffitti alti, no? Vedi cose che non esistono. E le cose che vedi sembrano altre cose. Un uccello può essere un pipistrello. Un pipistrello può essere una busta di plastica che vola. Così va il mondo. Vedi una cosa per un'altra. Uccelli-foglie. Pipistrelli-uccelli. Ombre fatte di luci. Rumori accidentali che sembrano più significativi. È sempre così, dovunque vai."

Le realtà sono molteplici, i fatti inesatti. I finali sconcertanti. La vegetazione è sempre più fitta.
Ci dicono Raimo e Gazoia che ispirandosi al New Yorker e a Granta hanno deciso di pubblicare a cadenza decennale una raccolta di racconti. Per questo hanno scelto undici scrittori under 40 (che mai avevano pubblicato con Minimum) e da lì è uscito L'eta della febbre. 
Io subito dopo la presentazione del libro al Salone sono corsa allo stand Minimum a prendere una copia. E ho fatto bene.


Undici racconti che sono una ventata di aria fresca, una terapia miracolosa per affrontare una giornata qualsiasi. C'è un incedere, il passo spedito, ma spesso anche un po' barcollante in questi racconti, un continuo avanzare verso qualcosa che si conosce ma non abbastanza.
Ho detto terapia non a caso. Ogni narrazione sceglie un presente e lo affronta, scava e cerca ragioni del suo essere in tutti gli angoli. Per questo è terapeutico,almeno secondo me, che mi sono fatta una bella dose di Latronico Bellocchio e Santoni senza alcun rimorso. Latronico e Bellocchio contro l'ansia:

“Tutto vero; eppure, si diceva seguendo Uwe a passo spedito in salita, quel processo sommario l'avrebbe dovuto affrontare comunque e il down non sarebbe riuscito a renderlo poi tanto peggiore di come sarebbe stato in ogni caso. D'altro canto, proprio nel momento in cui la sua vita stava per cambiare così drasticamente - ma chi prendeva in giro, era già cambiata per sempre - poteva forse concedersi quell'ultima parentesi quel viaggio-lampo nel tempo.”

“Nicola si alzava la maglia, si scopriva la pancia fino alle costole, si teneva sollevata la maglia con la mano sinistra e con l'altra scriveva:

c'è una crepa
una crepa in tutte le cose
è da lì che può entrare la luce”.


Santoni contro le paranoie.

"Chi ha scritto che la più pura rappresentazione dell'amore di coppia oggi è il tragitto verso casa con le borsa della spesa piene? A patto che ci siano anche quelle viola del Systembolaget".

Per dirvi solo i tre che mi sono già riletta. 
Perché è un presente vero. Non una di quelle realtà artefatte, scenografie che mostrano un sacco ma non dicono niente alla fine. Ci sono Erasmus, misticismi, parole scritte sulla pelle, futuri incertissimi. 
E poi ragazzi quando in una raccolta di racconti vi ritrovate una piccolissima graphic novel. Dai, che ve lo dico a fare.

Un mese che si può riassumere semplicemente dicendo "pochi ma buoni".
Stressante? Invivibile? Voglio bere fino a perdere i sensi? Come lo vogliamo riassumere giugno?
Fortunatamente i libri che ho letto mi hanno distratto un po' quando di distrazione ce n'era assai bisogno. Su cinque ve ne cito solo due ma anche "L'età della febbre", "Le relazioni pericolose" e "Se non è vietato è obbligatorio" mi hanno fatto respirare di nuovo.

  • Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas. Continuamente sento commentare qualcosa con "brividi". Ragazzi, fino a quando non avrete letto questo romanzo i brividi ve li sognate proprio. La storia di Edmond Dantès vi caricherà di adrenalina e malinconia, una combinazione che vi distruggerà senza pietà. 
  • Autorità, Jeff Vandermeer.  Una performance grottesca, quasi un capolavoro de La Fura dels Baus, una danza inquietante intorno a un fuoco spaventoso, senza proiettare nessuna ombra. È la presa di coscienza di un maniaco del controllo (ma è molto di più in realtà) dei rischi e delle volontà perdute nell'Area X. Ci sono cose che possono essere viste ma forse sembrano altre, realtà che odorano di muffa e parole malsane. Bello, bello, assurdamente e clamorosamente bello.
Colpita e affondata insomma.

Le mance. Quel denaro meraviglioso che spendo immediatamente. Bello avere la libreria di fronte a dove lavori. Visto che tanto so già come va a finire sto progettando il recupero di tutte quelle mattonate il cui acquisto viene sempre posticipato. Quindi:


  • L'arcobaleno della gravità, Thomas Pynchon. Uno di quei libri che prendo in mano ogni volta che penso di comprarmi un bel mattone e che, ogni volta, finisco per riporre di nuovo sullo scaffale. La mia buona azione sarà dargli finalmente una chance. Mi sapete dire comunque le vostre opinioni al riguardo? 
  • Cento Racconti, Ray Bradbury. Questo sì che è un acquisto importante. Tra l'altro colgo l'occasione per consigliare "Cronache Marziane", bello, surreale, onirico. La grazia di Bradbury nelle short stories è affascinante. In questa raccolta accanto alla fantascienza, che comunque sia è sempre un pretesto per riflessioni più grandi, racconti che suscitano emozioni sempre contrastanti, abbiamo racconti sui dinosauri (non commento neanche), vampiri e freaks vari. Piango al pensiero di non averlo ancora letto.
  • Tutti i racconti, Graham Green. Credo che questo sia uno dei libri che stanzia da più tempo nella mia infinita wishlist. Io di Green ho letto solamente "Fine di una storia" che sinceramente non mi entusiasmò tantissimo come trama, ma ammirai immensamente la maniera in cui Green ti prende la mano e ti mostra di cosa sono fatti gli esseri umani. Il fatto che questo romanzo venga citato in "Donnie Darko" lo rende poi per me un must have. 
  • Il mulino di Amleto, Giorgio de Santillana, Hertha von Dechend. Questo libro viene citato da Graham Hancock, Robet Bauval, Colin Wilson e molti altri, come base per la loro dissertazione su una civiltà scomparsa. Come ho già ripetuto milioni di volte, niente cose strambe su alieni che fanno atterrare piramidi o marziani che hanno colonizzato l'Antartide. Ricerche serie. Questo romanzo è un vero e proprio viaggio alla ricerca di un significato dietro alle religioni e alle mitologie.
Altri consigli? 
Ho letto "Benedizione" con molta calma. Concordo su ciò che viene detto sul retro della copertina, non ti lascia andare quando lo prendi in mano. Kent Haruf è capace di stregarti. Ti immobilizza, letteralmente. Io però l'ho presa con calma, ho capito che dovevo farlo immediatamente. 

La narrazione è scarna, prima di fronzoli, senza alcun vociare isterico che pretende da te una qualche comprensione. In una storia che parla di un uomo che sta per morire, ma anche di molto altro, ci si aspetta qualcosa di pretenzioso forse, una messa in mostra del dolore. Non solo questi inutili orpelli non ci sono, ma grazie appunto a una scrittura completamente priva di aggiunte superficiali abbiamo un manifesto che ci racconta lento storie di vite che passano. 
Quando Dad Lewis sta per morire la figlia Lorraine torna in città. Poi ci sono i vicini di casa. Ma anche un pastore troppo complicato o una relazione che è chiaro quanto non possa funzionare. Sono quelli che si definiscono momenti di vita quotidiana, e in molti hanno detto "Carver". Però qui secondo me è un po' diverso. Carver ti stritola la mano (e il cuore anche), mentre qui è come trovarsi di fronte a una finestra aperta, e senza malizia né troppo clamore mettersi a vedere cosa fanno le persone lì dentro. Anche per questo l'ho presa con calma. I capitoli sono brevi, i dialoghi, dio mio, i dialoghi. I dialoghi sono quadri perfetti. Malinconici, esatti, ecco, c'è un'esattezza umana che può sembrare costruita in maniera quasi fin troppo perfetta, quando in realtà vi ritroverete a provare solo pura empatia. 

In questi momenti dove ci si trova ad osservare queste vite che procedono, o rallentando ripercorrendo un poco il passato, si affrontano tantissime cose anche se in realtà possono sembrare poche. Ci sono silenzi preziosissimi e parole accurate. Niente viene mai comunque lasciato a sé stesso. Una malinconia quasi brutale.
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