Paper Moon
(Turn of the brew è un rubrica a cadenza irregolare, malgrado i giovedì che non capiamo siano regolarissimi. Per questo chiunque è invitato a partecipare.
Niente di speciale o cerebrale.
Semplicemente, partiamo da un facile assunto:
libro < libro + caffè < libro + caffè + cibo
Una categoria a parte è quella:
libro + alcool.)





Ci sono mattine che devono essere affrontate con il giusto spirito. 
Perché ci sono scadenze e incombenze, perché noi prima di far l'albero di Natale abbiamo deciso di distruggere la cucina per farne una nuova e quindi: mattonelle lisce o opache? 
Non saprei, e mi impanica di più trovare l'ordine corretto alle mie letture in realtà.
Quindi ci vogliono certe cose, un cannolo strabordante di ricotta o ancora meglio una pesca impregnata di alchèrmes. E un salto nel vuoto. 
E vi assicuro che Albero di carne di Stephen Graham Jones (Racconti Edizioni) è un bel salto nel vuoto. O meglio, è scegliere di addentrarsi dentro un bosco innevato, sapendo che non sarà possibile ritrovare le nostre tracce e tornar indietro. 
Albero di carne è una raccolta di racconti che non vi darà tregua. Vi offrirà placidamente la stessa sensazione di terrore di quei momenti in cui non vorreste guardare ma siete costretti a farlo, perché non potete farne a meno. 
Nell'anno in cui ho conosciuto Ligotti non pensavo di poter esser così fortunata da trovare così facilmente un degno avversario al suo terrore, seppur capace di un orrore del tutto diverso, più materiale e quasi fiabesco.

"Poi il mondo per come l'avevamo conosciuto, finì.
Per sempre. 
invece di fare un tonfo nell'acqua, Melanie si fermò per un'istante sulla superficie in posizione raccolta, a palla di cannone, con gli occhi chiusi, tutto il peso sulle reni, con i capelli che erano l'unica cosa sott'acqua e poi anche lei lo sentì - che non stava affondando - e aprì gli occhi, li spalancò, inarcò la schiena per evitarlo, con la bocca atteggiata in un grido, e si capovolse, veloce come un gatto. Una volta, due volte, tre volte, finché non fu al largo, dov'è l'acqua profonda, dove il dolce pendio della riva scendeva bruscamente nel'acqua fredda. Era ancora sulla superficie e si divincolava, urlava e tutto quello che in lei aveva ancora dodici anni stava morendo. Alla fine, ancora divincolandosi, chinò la bocca sui lacci dei polsi poi portò le mani ai lacci delle caviglie e poi cercò di alzarsi in piedi, ma cadde in avanti, puntellandosi sui palmi delle mani, con i capelli come un sudario nero intorno a lei. guardò verso di noi attraverso l'acqua e gli occhi erano ormai l'unica cosa umana in lei e sembrava che mi implorassero, poi si girò con un guizzo, iniziò a correre sulla superficie a quattro zampe, per tutta la larghezza del lago, due chilometri, lasciandoci lì affondati fino alle ginocchia in quello che restava delle nostre vite."







Il Settimino merita più di una lettura molto probabilmente. Questa è stata la prima, carica di tensione, motivata dalla voglia di arrivare in fondo, risolvere il caso, sciogliere i dubbi. La seconda avverrà sicuramente a dicembre, sotto Natale (periodo in cui il romanzo è ambientato, io l'ho letto a luglio, ma me lo sono divorata ugualmente senza pietà), e sicuramente nella seconda lettura apprezzerò di nuovo la potenza di questa storia, scavando di nuovo tra gli intrighi e le infamie dell'Italia infestata e, ancor più realisticamente, corrotta di Fabrizio Borgio (Acheron Books). 


Quando un bambino nasce prematuro al settimo mese, nasce un Settimino, un essere umano dotato di oscuri poteri soprannaturali, chiaramente, fuori controllo.
Grazie a questa impronta horror Borgio costruisce un romanzo all'apparenza molto semplice: un omicidio, un giovane telecinetico allo sbando, un caso da risolvere. Ma non si tratta di un solo e piacevole orrore da gustare. Certo, non è nascosta la vena macabra e terribile, l'etichetta horror è quella che più si addice a Il Settimino. Ma il vero piacere provato nel leggere questo romanzo è quello che si prova quando ci si accorge di star vivendo una situazione ad alto tasso soprannaturale in una claustrofobica bolla di intrighi creata da un governo italiano marcio e corrotto. 

Affidandosi a un protagonista iconico, Stefano Drago è il tipico detective di un giallo ben costruito, vengono maneggiati temi spinosi, come la corruzione del governo, i segreti di Stato, insieme ai misteri affidati al DIP (Mulder approves). I problemi, pessima situazione governativa italiana e misteriose bambine piangenti si uniscono, andando a creare un quadro ben più complesso rispetto a quanto uno potrebbe aspettarsi da questo romanzo. 
Questo è il suo punto forte. Il Settimino è in grado di stupire il suo lettore snocciolando un intrigo al secondo, riassumendo il passato della storia italiana coinvolgendo lo spettatore in uno show di orrori ad alta tensione.

E questo che ci si aspetta da un horror (quasi fanta.politico in questo caso), ma Borgio ha affidato al DIP compiti ben più importanti, e a questo punto sembra quasi scontato aspettare un seguito delle avventure di Stefano Drago.
L'esorcista di William Peter Blatty è un lungo sguardo volto verso il male. 
La storia della piccola Reagan che viene posseduta da un'identità demoniaca è passata sicuramente alla storia grazie al film di William Friedkin del 1973 grazie a un orripilante fiotto di vomito, ma vi assicuro che il romanzo si colloca su tutto un altro livello.



O meglio, le dinamiche sono praticamente le solite, alcune scene quasi ricalcate.
Ma il libro propone una visuale così indiscreta, uno sguardo che spoglia di ogni intimità ogni personaggio del romanzo da risultare non solo spaventoso ma persino morboso. 
Perché L'esorcista fa paura. Non il tipo di paura che magari ti tiene sveglio la notte, ma quella che ti fa fissare il vuoto per cinque minuti buoni, la testa piena di buio assoluto. 
L'obbiettivo di Blatty è infatti quello di dimostrare che sì, il male c'è, e ce lo mostra dimostrando come questo si prenda un animo del tutto innocente, quello di una bambina. 

Ma lo fa sopratutto dimostrando come il male riesca a portare alla luce qualsiasi verità. 
Quella stessa luce che illumina nella copertina Padre Merrin (non è avvolto infatti dalle oscure spire dell'inferno, ma da una luce abbagliante). 
La verità non accettata a livello famigliare dalla madre di Reagan, il marito che non chiama la bambina, un lavoro che occupa la maggior parte delle sue giornate. La verità non accettata sia a livello scientifico sia a livello religioso. 

Gli unici personaggi che hanno in mano uno strumento coerente sono quei due collocati ai poli opposti della trama: il demone Pazuzu e Padre Merrin. 
Ed è qui la forza spaventosa del romanzo, il suo rivelarsi lentamente, tutte le verità insieme a segni stessi della possessione demoniaca, il lento manifestarsi del demone è infatti quasi ipnotico. E questo, insieme a un ritmo narrativo costante che non porta mai a cali d'attenzione, rende il libro coinvolgente e allo stesso tempo esasperante. 

Il male è reale, tangibile. 

Nyctophobia di Carlo Vicenzi (Dunwich Edizioni, ovvio) è un romanzo claustrofobico. 
Consigliato? Sì, consigliatissimo. Potremmo chiuderla qui effettivamente, perché non c'è miglior aggettivo di claustrofobico per farvi capire l'esperienza affrontata in questa lettura.


Vicenzi plasma un mondo dove apparentemente non c'è alcuna salvezza. 
Sulla terra è calato un buio eterno, corporeo, che ha fatto dimenticare a molti la luce del sole, e che ha reso dei pazzi sognatori quelli che ancora provano a ricordarla. 
Eliana, una ragazzina che non vuol essere etichettata come tale, viene esiliata, ed è in quel momento che si trova a dover sopravvivere in mezzo all'oscurità.
Farà affidamento su vari personaggi, in un viaggio che la porterà a doversi fidare di molti ma sopratutto a doversi difendere da qualsiasi cosa. 

Il fascino del romanzo risiede proprio in questo. Perché questo scenario weird fantasy porta con sé creature nuove, impossibili e surreali. 
La flora e la fauna si sono dovute adattare a questo mondo corrotto dal buio, sviluppando nuove caratteristiche che le rendono spesso letali ma quasi sempre incredibilmente affascinanti. 
Perché è questa la vera forza del buio: è affascinante. 
La vera sfida non è sopravvivere alle trappole nascoste e celate dalla spessa coltre nera, ma resistere a ciò che essa sembra offrire. 
Non si perde sé stessi nell'oscurità, ci si perde insieme ad essa. 
Ed è questo che rende il romanzo agghiacciante: non c'è salvezza alcuna. 
Per trovarla bisogna prima ritrovare il passato, la fiducia, l'essere umano che in un mondo senza luce sembra essere svanito per sempre. 



L'acquisto di Dalle Rovine, esordio di Luciano Funetta (collana narrativa Tunué) mi ha importunato dalla sua uscita. L'ho rimandato, e rimandato ancora, ben sapendo che in realtà mi sarebbe piaciuto moltissimo. Gli elementi perché lo adorassi mi lampeggiavano davanti agli occhi: una storia disturbante, allucinatoria, il mondo della pornografia artistica (che apprezzo parecchio), una qualche previsione catastrofica all'orizzonte.
Perché il protagonista, Rivera vive in solitudine, la sua unica preoccupazione, ed il suo unico piacere, sono i suoi serpenti. Trenta teche, trenta creature letali che lui accudisce e protegge. Grazie a un video amatoriale entra in contatto con famosi registi e personaggi del cinema porno, che lo conducono oltre, oltre qualsiasi cosa.


In realtà questo romanzo è ancora meglio di quanto mi aspettassi.
Il fattore pornografico è unito all'elemento ctonio dei serpenti, crea un percorso allucinatorio, deviato, ma perfettamente cosciente. Sì, l'azione si colloca in una città fittizia, Fortezza, le cui strade ci appaiono senza neanche leggerlo avvolte di nebbia, dove c'è un Quartiere degli inglesi in piena decadenza e il silenzio è claustrofobico. Sì, questa città è onirica, fuori fase, ma quello che fa Rivera è perfettamente reale.
"E anche se nell'inquadratura ci siete solo voi due, nell'immagine siamo rimasti intrappolati anche io e il vecchio. È come una specie di bolla di vetro, un'immagine. Quelli che riescono a scoprire tutti i segreti di un'immagine posseggono un dono, anche se credo che questo potrebbe significare che sono perduti." 
A differenza di altri non ho avuto l'impressione che quello che leggevo non stesse accadendo davvero. I passi di Rivera hanno un senso, sono concreti in ogni luogo, anche a Barcellona, città che in questo caso si fa inquieta e strisciante. 

La vita di Rivera non cambia grazie al video amatoriale. O meglio, il video amatoriale gli permette di andare oltre, di poter afferrare finalmente qualcosa. Con un porno sicuramente più effimero di quello di Zenò Rivera comprende sé stesso. Perché lui è sempre stato in uno stato liminale. La sua apatia è in realtà solo un lungo silenzio. Tra la famiglia e i serpenti ha scelto quest'ultimi. Ed è il video che gira con loro, insieme alle sue creature che segna finalmente, chi sia davvero.
"I cani capiscono. Gli uccelli che mangiano i corpi dei morti. E i serpenti, Rivera. Loro capiscono, tu lo sai. Dal giorno in cui il primo serpente scese strisciando dal monte Parnaso, i serpenti e le altre bestie che abitano l'oscurità sono destinate a capire e a morire, e muoiono per mano di coloro che vivono alla luce del sole. Il mondo è una guerra tra ciechi e abbagliati."

Questo gli permette di incontrare Jack Birmania, di conoscere un ambiente estremo, ma sopratutto di entrare in contatto con Alexandre Tapia.
Da questo momento le rovine si ergono intorno a lui e le voci che ci narrano la storia di Rivera sono sempre più sussurranti. È una storia di feticismi sì, ma anche di ricerca.
E non ha caso c'è la volontà finale di girare uno snuff movie. Il senso del proibito, la ricerca della distruzione sono funzionali a una voglia di comprensione. L'inquietudine va di pari passo con l'accettazione dell'estremo, ed è questo che è Dalle Rovine, il manifesto dell'accettazione di una realtà personale. 

Dunwich ha pubblicato recentemente il terzo volume delle avventure di Carnacki, un bel volumetto con tre racconti con appunto protagonista il personaggio creato da William Hodgson.
Carnacki è un cacciatore di fantasmi, esperto del soprannaturale e detective dell'ignoto, scienziato che cerca di comprendere le meraviglie celate nel mondo delle Mostruosità Esterne. Si trova a metà tra l'impertinenza di Sherlock Holmes e il modo di fare avventuriero di Dylan Dog per capirci. 


Questi racconti sono veloci e intriganti, ottimi per passare ottime ore colme di un terrore e adrenalina, la curiosità che va crescendo. 
Non c'è mai un calo d'attenzione, sopratutto per due motivi immagino. Ogni racconto inizia con Carnacki che, dopo aver acceso la pipa ed essersi messo comodo, si appresta a raccontare ai pochi amici prescelti per le sue serate l'ultima avventura. Il racconto procede poi in modo lineare, preciso. Viene proposto un mistero e lui, ovviamente accetta. Nella maggior parte dei casi imbraccia l'attrezzatura e si mette al lavoro. E questo è un altro elemento che offre una lettura avvincente e che provoca sempre più curiosità. Hodgson non si trattiene certo sui dettagli tecnici. Utilizzo dei colori, vibrazioni, apparecchiature vittoriane, fotografie e pentacoli elettrici. Il detective non è presuntuoso, spesso viene sopraffatto lui stesso dal terrore, ma affronta il caso con un vero e proprio metodo. Seguire le sue ipotesi, i suoi tentativi, non è per niente male. Sopratutto quando ci si mette di mezzo un vero e proprio essere maligno, e a quel punto i marchingegni del detective si trovano ad affrontare mostri folkloristici se non peggio. Questa storta di monsters of the week sono sicuramente protagonisti dei racconti migliori. 

In questo caso il primo racconto è decisamente il più bello del resto. Il maiale. Un uomo ha il sonno disturbato e ammette di sentire dei rumori. Dei grugniti. 
L'idea di una creatura simile, un semplice maiale ma terrificante e diabolico, proveniente da chissà quale dimensione incoerente, capace di affollare i sogni e le allucinazioni di qualcuno è un elemento disturbante tipico, come possono esserlo i rumori dentro ai muri o l'odore di putrefazione nelle soffitte. Qui la creatura che si trova ad affrontare Carnacki è davvero qualcosa di spaventoso. 

Gli altri due racconti, Lo Jarvee stregato e La scoperta, sono più leggeri. Più spirito d'avventura e meno follie allucinatorie. Ma non per questo da meno. Il secondo racconto ha come protagonista lo Jarvee, una nave infestata, il terzo invece (che per quanto il mio preferito sia chiaramente il primo, così disturbante, ho adorato tantissimo) è più un vero e proprio caso da risolvere, qualche indizio, un problema di contraffazione e basta. Nessun elemento soprannaturale, ma di nuovo, un metodo preciso e una risposta lampante.

I racconti di Hodgson non sono certo raccapriccianti o così disturbanti quanto possono esserlo quelli di Lovecraft o Chambers, ma sono essenziali. C'è tutto quello che volete in un buon racconto fantastico. Una ricerca, una missione, un orrore da affrontare. Il misticismo è sostituito dal terrore di non uscirne vivi e basta, da una soluzione che molto probabilmente è davanti ai nostri occhi, ma non si riesce a trovare. 
Consigliatissimo.  

La materia oscura di Michelle Paver è un libro affascinante. Non avevo mai sentito parlare di quest'autrice, lo ammetto, e sono rimasta piuttosto sorpresa quando ho scoperto che sono opera sua diverse saghe, spesso legate all'antropologia. 
Ovviamente mi ha catturato la trama. Nel 1937 una spedizione a scopo scientifico di cinque uomini si organizza per partire verso Gruhuken (solamente il nome evoca un qualcosa di spaventoso e gracchiante), isola nell'arcipelago delle Svalbard. Il protagonista, Jack Miller, di cui leggeremo il diario sempre più delirante, accetta il ruolo di operatore radio. Parte controvoglia. I suoi compagni appartengono all'alta società, sono ricchi, intraprendenti, e lui si sente a suo modo un reietto, a disagio. Orfano, povero, senza speranza alcuna di ottenere un qualche successo nella vita. Ma è subito chiaro quanto Jack sia a modo suo brillante. Grande osservatore, acuto, curioso. Alla fine parte, ma è subito chiaro quanto la spedizione sia condannata. Partono in cinque, ma a causa di alcune circostanze solo tre arrivano a Gruhuken. 
E non ci arrivano a cuor leggero. 


Si respira subito l'aria di disagio. Gruhuken è già minacciosa, in un modo sottile. L'equipaggio cerca di dissuadere la spedizione come fanno i poveri contadini con Jonathan Harker in volta verso il castello del Conte. 
Capiamo cosa sta per succedere. Anzi, sappiamo precisamente cosa sta per succedere visto che il prologo che abbiamo letto qualche pagina prima è una lettera scritta dieci anni dopo da uno dei sopravvissuti.

Dal momento in cui ha inizio la loro permanenza sull'isola prende vita un meccanismo di difesa, Gruhuken attua un vortice di terrore. 
Due sono i veri elementi di disagio: il buio e il silenzio. 
Paure primordiali che in questo posto prendono vita e attaccano lo sprovveduto che cerca di sopravvivere con una precisione chirurgica.
La maggior parte dell'anno a Gruhuken si svolge nel buio completo. L'ultimo sole tramonta ad agosto, e da quel momento bisognerà attendere sei mese per vedere una nuova alba.
Può sembrare una sciocchezza, ci sono le lampade, le notti stellate, i sigari e il whiskey. Ma la follia si insinua nel verde pallido a cui si abituano gli occhi poco a poco. E l'ancora più terribile silenzio, quel terrore nascosto persino nello scricchiolare dei propri passi sulla neve.

E la cosa incredibile è che Jack Miller ci viene inizialmente presentato come un uomo di ventotto anni che cerca proprio questo, qualcuno che vuol vedere nel cuore delle cose.
Senza amici, scontroso. Ma le cose cambiano e quando Jack rimane solo ovviamente impazzisce. 
Ed è tutto più tremendo se c'è di mezzo il rar. 
"Armstrong liquida tale condizione come una “stranezza” che capita ad alcune persone allorché si trovano a trascorrere l’inverno nell’Artico. A suo dire, si tratta semplicemente di bizzarre abitudini, come accumulare fiammiferi quasi fossero un tesoro prezioso, o controllare ossessivamente le scorte."
L'infestazione presente a Gruhuken è qualcosa di molto potente, poichè è legata alla memoria del luogo. Al suo passato. E i posti ricordano, le memorie prendono vita.

Alcuni passaggi sono davvero subdoli. Non ho trovato quella somiglianza con Lovecraft che molti citano nelle recensioni (no ragazzi, solamente perché un poveretto perde il cervello questo non sta a significare che boom! sia come Lovecraft), ma mi ha scioccamente ricordato alcuni giochi per pc a cui ho giocato parecchio tempo fa. 
Alla fine la sopravvivenza è legata alla routine e Jack comincerà a comportarsi come un ossessivo compulsivo. Mani poste in luoghi precisi mentre si cammina nella neve, orari ben definiti, il grattare familiare degli husky. Ma se qualcosa cambia? Se ci fossero cose che in quell'immobilità assoluta sembrano prendere vita? 

Alla fine mi sono divorata questo romanzo in praticamente ventiquattrore.
E qualche pecca c'è. Il diario di Jack alcune volte suona artefatto. Nessuno scriverebbe davvero cose simili, e non parlo del delirio, ma dei passaggi in cui ancora è lucido. 

Ma la pecca peggiore è che non c'è un vero e proprio climax, cosa che in una storia del genere deve esserci. Questa mancanza accompagna un finale un po' scorretto infatti. Non doveva finire proprio così. 

Ve lo consiglio comunque. È un buon libro, ricco di suspense, di paesaggi descritti con una semplicità disarmante ma capace di affascinare comunque. 



Ogni tanto bisogna pur allentare un po' la presa. E io mi sono presa una giornata (un giovedì, cosa che è abbastanza esplicativa di suo) per rilassarmi e divertirmi un pochino. Alla fine Italian Way of Cooking, Marco Cardone edito da Acheron Books (che vi invito a spulciare, fantasy e sci-fi tutto italiano) me lo sono divorata in un giorno. Dalla mattina di un terribile giovedì alla sera dopo cena. Qui di seguito le buone ragioni per prendervi una pausa anche voi. Lo so, sono finite le vacanze, quale pausa? Ma la pausa dalle vacanze chiaro, non mi dite che volete altra gente intorno spero.



  • È divertente, chiaro. Un romanzo che parla di come un cuoco il cui ristorante va piuttosto male si ritrovi a cucinare creature soprannaturali può essere due cose: pretenzioso o divertente. Matteo per fortuna sceglie la via giusta (non fate caso alle parole che uso, sono ancora abbastanza traviata da SW). Dopo solo qualche riga verrete travolti dal sano e ottimo vernacolo toscano (sono di parte, lo so). Sarete sommersi voi e le vostre mamme. Non ci si può fare niente, ogni uscita di Nero, ogni suo pensiero sgangherato vi farà sogghignare. Ma non è tutto. La dinamica degli eventi è costruita in maniera essenziale, ma non ovvia. Di conseguenza le azioni sono degne di una serie tv divertente e capace di creare dipendenza. Sappiamo cosa sta per succedere e non vediamo l'ora che ci venga mostrato.
  • I mostri che Nero cucina sono italiani. Prodotti D.O.P. In pratica assisterete alla ricerca di creature appartenenti a un folklore del tutto nostrano più o meno letali. Questa scelta è molto probabilmente la carta vincente. Un romanzo che parla di mostri cucinati da un protagonista spiantato e divertente è buono, ma se i mostri sono insoliti, poco noti e legati a un territorio ben preciso, il romanzo diventa un magnete, la curiosità è giustificata. 
  • Continuo a ripetervi quanto sia divertente, la verità è che c'è anche una buona dose di azione. Nero possiede anche un'arma degna del suo nome, mozzateste. Chiaro, stiamo andando a caccia di mostri. L'unica pecca è questa forse, io di azione ne avrei voluta anche di più. 
  • È scritto bene. Me ne sono accorta dopo le prime venti pagine divorate. Intrattenimento allo stato puro in una confezione perfetta.
Leggetelo, prendetevi una pausa. E poi le cose sono serie ragazzi, con il ricettario imparerete a cucinare il Kappa. Viene buono, davvero. 
Ecco come riuscire a parlare di orrori lovecraftiani in maniera nuova e pungente. 



Il punto è che a voler parlare dei Grandi Antichi in un contesto moderno si rischia sempre di creare un'atmosfera fin troppo artefatta, per niente affascinante, ovvietà in contesti banali. 
Ma Vergnani è riuscito a superare l'ostacolo giocando con le scatole cinesi. 
Due ironiche guardie del corpo vengono assunte da un professore diretto a Innsmouth, o meglio, la sua riproduzione per divertire "i gonzi" come vengono chiamati da Vergy. Edifici fatiscenti, tempio consacrato a Dagon, abitanti dagli occhi ipertiroidei, insomma, tutto il pacchetto completo. 
Questa scelta ha aggirato tutti i problemi ed è riuscita a far evitare il disastro. Nessun tentativo di imitare il buon Howard, ma piuttosto una storia innovativa, divertente ma allo stesso tempo piena zeppa di orribili realtà. Il risultato è insolito, quasi caustico, ma non per questo dissacrante.

«Voi forse vi credete dei cacciatori di mostri. Ebbene, sapete qual è la novità? Non lo siete. Non lo siete perché credete che la cosa sia nobile e interessante. Niente di più sbagliato. Cacciare i mostri non porta alla gloria. Nel novantanove per cento dei casi porta a guardare i fiori dalla parte delle radici.»

Vergnani è riuscito a ricreare le atmosfere viscide, i vicoli bui, le stanze maleodoranti di Innsmouth intensificando la realtà con le battute oscene di Vergy e Claudio, giocando sull'equilibrio tra l'ignoto e l'occhio critico di qualcuno che ne ha già viste tante e ne ha avuto abbastanza, tra il timore che ci sia veramente qualcosa di più grande, di tremendamente orribile, e il troppo umano. 

Le dinamiche sono quasi cinematografiche, ma non per questo ovvie. Verrebbe da dire che questo è il libro da leggere quando si vuole staccare un po' la mente, ma in realtà non è solamente questo. 
Il fatto che questo romanzo faccia ridere non implica il fatto che ci si possa permettere della disattenzione. Il soprannaturale c'è, il timore di vedere qualcosa di insolito dopo aver svoltato un angolo è onnipresente. 
Dunwich edizioni si conferma portavoce di un horror intenso, che crea dipendenza.
Lovecraft's Innsmouth è il romanzo da leggere se si è amanti di Lovecraft o se più generalmente si ha bisogno di una sempre sana scarica di adrenalina. 

Un mese distruttivo, terribilmente pieno di turisti, facce accaldate, distrazioni, e libri angosciosi e bellissimi. Volevo farlo e l'ho fatto, rendendomi conto una volta per tutte che la narrativa che comprende elementi horror, surreali, stranianti e crudeli è quella che più mi fa star bene e mi tiene in costante esercizio mentale. 

  • Doctor Sleep, Stephen King. Come ho già detto qui, perché leggerlo? Beh, perché no? Non c'è pedanteria verso il passato, nessuna ossessione infilata ad hoc per ricordarci che sì, è proprio lui, Dan Torrance. O meglio, lo è, ma nella misura che gli spetta. Le storie continuano, il passato resta passato ma quando si ha la luccicanza si è comunque "speciali" come dice Abra Stone. I puntini che vengono uniti riescono a creare l'ennesimo piano mostruoso e violento (stavolta proprio tanto) frutto sia dell'uomo che delle circostanze che favoriscono la crescita dismisura della sua crudeltà. L'unica cosa che rimpiango è Rose. Per essere la Regina di Castel Inferno, alla fine, speravo meglio.
  • I racconti del Necronomicon, H.P. Lovecraft. Letto per ripassare un po' la situazione in vista della lettura in inglese dei racconti del Necronomicon. Insomma, devo dire davvero qualcosa? Tra l'altro ho recuperato "I sogni nella casa stregata" e mi sono resa conto con orrore (in tutti i sensi) che enorme lacuna fosse non averlo ancora letto. Un raccapriccio perfetto.
  • Lunar Park, Bret Easton Ellis. Geniale. Possiamo tranquillamente dire che "ogni storia d'amore è una storia di fantasmi". 
    Infimo, spettrale e corrosivo.
Come ho detto, un mese all'insegna della sanità mentale e della sobrietà questo. Psicanalizzatemi pure.
Se nel post precedente sull'accumulare emotività a pacchi siamo stati presi per mano dalla Agus che ci ha fatto conoscere un amore delicatissimo e umano questa volta King ci piazza davanti al passato, e a come tutto quello che siamo alla fine ci accompagni, ma non per questo necessariamente ci debba condizionare.


Pensavo sarebbe stato piacevole, ma non così meritevole. Sento dire che Doctor Sleep è il sequel di Shining, questo mi fa storcere il naso. Lo leggo perché è King, ovvero per me il più capace narratore vivente, però ecco, mi giravano già un po' le scatole. Era necessario? Dopo averlo divorato posso dirvi che non solo è necessario, ma perfetto. Danny Torrance è ancora bambino nelle prime pagine, dove incontra il buon vecchio Dick di nuovo, perché la Signora Masey proprio non lo vuole lasciare andare, e ancora lo va a cercare lasciandosi dietro una scia putrida. Perché se si ha la luccicanza certe cose non si possono lasciare indietro, non come potrebbero fare altre persone.
Però poi Danny diventa Daniel e diventa come suo padre. O meglio, la versione ridotta all'osso di suo padre, alcolizzato e pure triste. 
Eppure Daniel è diventato ciò che gli spetta. Ha visto cose, affrontato altre cose, perso un padre e una madre. Non è banale, non è ad hoc. Non perché è il bambino che è scampato al disastro dell'Overlook, ma perché è successo come direbbe il Dottor Lecter. 
E King sottolinea quest'umanità che trascende da qualsiasi cosa possa esser successa tra le mura di quell'hotel maledetto inserendo un secondo trauma nella vita di Daniel, molto più umano rispetto a una donna marcia in una vasca. 
Daniel viene dilaniato da molti avvenimenti, ed è così che cerca un nuovo inizio. 

Così diventa Doctor Sleep. Ed è qui il fulcro di tutto quanto. Se Shining era un'immensa caduta, un crollo annunciato, Doctor Sleep, Daniel stesso appunto, parla di accettazione. Di rimettere a posto i pezzi, facendosi carico di ogni cosa successa o capace ancora di succedere. Così lui deve accettare di essere Doctor Sleep, Abra Stone di esser sua allieva.
E i bad boys della situazione sono i mostri che servivano. E mai ci verrà spiegato precisamente perché sono così, perché devono fare quello che fanno, ma sarà sempre chiaro che è una loro scelta. "Hanno pensieri da rettile". Non sono più uomini, e così hanno fatto la loro scelta.
Il fatto che sia una nuova storia non comporta però che l'Overlook e Jack Torrance siano estranei alla storia. Abbiamo di nuovo l'alcolismo, il mancato controllo della rabbia (ghigni e sogghigni per niente teneri), nuovi inizi che potrebbero fallire miseramente, e appunto Il Vero Nodo. Perché c'è differenza tra "i fantasmini" che no, non vogliono andarsene, hanno ancora qualcosa da dire, magari a ragione, e questi mostri che sono solo vuoti, gusci vuoti con la sola ragione di voler sopravvivere per forza.

Insomma, perché leggerlo? La risposta adatta è: se avete letto Shining, perché no? 
Ok, ammetto che sono ossessionata da tante cose. Un numero nella media comunque. Ma sono più che sicura che Lovecraft sia quell'ossessione che sta sul podio insieme a poche altre. L'outsider, l'ossessionato a sua volta, quel metterci di fronte a un essere umano incapace di conoscere la realtà, incapace di comprendere cosa si celi davvero dietro il cielo stellato che si ritrova a fissare pieno di meraviglia. Quella meraviglia che diventa orrore, una terribile comprensione che non può, e non potrà mai, perché mai lo è stata nei tempi, essere tollerata.
Il buon Howard ci mette davanti agli strappi nel tessuto cosmico che diventano vere e proprie ferite nell'animo umano, l'invisibile si palesa (ma mai completamente, mai con fare troppo scenico, mai del tutto, nessun Necronomicon mai esplicitato) e le stelle brillano come potrebbero brillare altrimenti solo a Carcosa. 



Erik Kriek prende Lovecraft e smussa gli angoli. La narrazione è più composta, quasi ammaestrata. Si viene presi per mano quasi con gentilezza. Non che per questo ci si senta meno inquieti. Sappiamo a cosa andiamo incontro. Sappiamo bene chi sono gli abitanti di Innsmouth, ma grazie a questo tipo di lentezza, affrontiamo l'orrore con una calma placida ancora più straniante. Kriek ha reso Lovecraft meno frustrato, meno orrorifico in parte. Incredibilmente la cosa mi è piaciuta da morire.
La sceneggiatura procede omogenea, un racconto come Dagon (uno dei miei racconti preferiti tra tutti quelli di Lovecraft) è un viaggio nell'orrore Lovecraftiano puro, con piedi che affondano nella melma viscida, geroglifici che non dovrebbero essere mai letti, e sebbene sia un racconto che ormai conosciamo a memoria neanche stavolta mi sono sentita meno sopraffatta. Merito del vecchio Howard, ovvio, ma anche di Kriek, che svela con un terrore quieto la creatura mostruosa che si cela dietro il reale. 



Il fatto che Kriek si sia ispirato ai fumetti della EC Comics degli anni '50 ha reso tutto ancora più credibile, più concreto. La copertina è la summa completa di ciò che affrontiamo leggendo questi racconti. Un tuffo nel cosmo, un orrore pieno di meraviglie. Per non parlare dei dettagli, dei motivi ittiformi, delle pieghe ripugnanti, delle creature che volano terribili sopra le nostre teste, nei parchi, mentre noi continuiamo a ignorare tutto.
Va bene, va bene. Tecnicamente mi sono già fatta più di un regalo di Natale e, tecnicamente (anzi praticamente), quasi tutti me l'hanno già fatto perché avevo bisogno di robe. Però è bello pensare che qualcuno si ricorderà che io in queste ultime settimane con subdoli messaggi subliminali ho buttato là qualche titolo che proprio, proprio vorrei. Il mio ragazzo è escluso visto che si deve sorbire i miei sproloqui in fatto di libri che voglio a giorni alterni. Niente messaggi subliminali.
Stephen King ha stilato una gran bella listina dei suoi dieci libri preferiti. Il mio carissimo amico Stephen (amiconi dal lontano 2000 noi eh), ha gentilmente risposto alla richiesta del giornalista J. Peder Zane, che ha chiesto a diversi scrittori quale fosse appunto la loro top ten narrativa per il suo libro "The Top Ten: Writers Pick Their Favorite books". Il libro è stato pubblicato nel 2007, ma il progetto è continuato, portando alla creazione di un meraviglioso sito pieno di liste (uno struggimento dolcissimo per non mettersi a far niente e riempire pagine di Moleskine con nuovi libri da comprare). I suoi libri preferiti sono dunque:


  •  The Golden Argosy, Van H. Cartmell & Charles Grayson. Short stories insomma. 
  •  Le avventure, Huckleberry Finn di Mark Twain. 
  •  I versi satanici, Salman Rushdie. Io scema non avevo mai letto la trama decentemente.
  •  McTeague, Frank Norris.
  •  Il Signore delle mosche, William Golding. Bello e brutale.
  •  Casa desolata, Charles Dickens
  • 1984, George Orwell
  • The Raj Quartet, Paul Scott
  • Luce d'agosto,William Faulkner. Mi sento ancora più in colpa ora.
  • Meridiano di sangue, Cormac McCarthy 
In molti si sono stupiti. Ma come, Stephen King, gran maestro dell'horror, quello che ha infilato un clown assassino/personificazione del male in un tombino pronto ad amputare bambini, non ha nemmeno un libro di Poe, di Lovecraft, di Chambers? Nemmeno una cosina come Bram Stoker.
No, e mi pare giusto. Ora, spesso ha detto a chi si è ispirato per i suoi lavori, tra i molti, è stata citata anche Shirley Jackson (di cui potrei osannare per ore il libro "L'incubo di Hill House", a mio parere un tuffo nell'ignoto e nell'ansia incredibile). Innumerevoli sono anche i riferimenti all'universo mostruoso di Lovecraft (vedi Yog-Sothoth). Tuttavia, se qualcuno ha letto e amato i libri di Stephen King si sarà accorto che la paura del buio non è altro che un meccanismo per innescare il ben più terribile e spaventoso inconscio umano. 

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